Nel 1912 gli sfangatori e soprattutto le pompe che li alimentavano d'acqua marina conobbero una grossa innovazione. Con l'elettrificazione delle miniere andarono in pensione le macchine a vapore e furono appunto introdotte quelle elettriche. A Rio Marina, per assicurare la corrente, fu messa in funzione la centrale del Portello. Alla miniera di Rio Albano furono attivate due laverie operanti a elettricità, di cui una distrutta da una frana, nel 1916, e ricostruita nel 1921.
Nello stesso 1912 la laveria riese, come poi tutte quelle elbane, fu dotata di un vibrovaglio, a cui ne fu aggiunto un secondo in progresso di tempo. Con questa tecnologia si ottenne la migliore classazione granulometrica del minerale trattato. Infatti anche quando l'escavazione forniva minerale di minore qualità e pezzatura, il vibrovaglio era in grado di estrapolare il materiale ferroso più minuto dalla sporcizia tramite un'ulteriore pulitura con getti d'acqua. Il materiale lavato veniva distinto coi termini di “minuto” e “grana”, a seconda della dimensione, inferiore o superiore ai 12 millimetri. Inoltre fu dotata di un nastro di cernita, che scorreva a bassa velocità, sul quale venivano separati il materiale ferroso lavato dal vibrovaglio, e lo sterile, ovvero gli scarti di pezzatura più consistente non scaricabili con l'acqua di lavaggio. La separazione veniva compiuta da operai generalmente anziani, e il nastro andava a scaricare il minerale a una tramoggia inclinata. Tramite la bocca inferiore di essa veniva caricato sui vagoncini, per essere accumulato nei depositi o portato all'imbarco.
Nel 1921 abbiamo la testimonianza di Giulio Pullè sui vibrovagli: “Queste piccole laverie hanno tutte una disposizione uniforme e sono composte essenzialmente di uno sfangatore preceduto da una griglia fissa e seguito da un vibrovaglio e da un nastro di cernita. […] All'atto di riprendere le terre, il minerale in grossi pezzi e lo sterile, che, specialmente nelle gettate antiche, trovansi frammisti alle terre, vengono separati a mano e la griglia superiore non ha altro ufficio che di completare questa prima cernita trattenendo i pezzi superiori ai 100 mm di dimensione massima, che vengono inviati in appositi canali facenti capo a due vagonetti di scorta, uno dei quali raccoglie lo sterile e l'altro il minerale in pezzi. Il materiale sotto i 100 mm entra nello sfangatore, dove sotto l'azione di una forte corrente d'acqua, viene liberato dalle parti argillose e poscia sollevato a mezzo di palette fino all'altezza del vibrovaglio. Sotto le scosse del vaglio il materiale minore di 10 mm di dimensione massima (minuto lavato) cade in altri vagonetti, mentre quello più grosso (fra 100 e 10 mm) è trattenuto e passa al nastro di cernita. Durante il cammino del nastro si tolgono a mano i residui sterili e le ocre eventualmente presenti, e si lascia la grana che va a cedere in un ultimo vagonetto. Le acque dello sfangatore alla loro uscita trattengono in sospensione insieme al fango argilloso anche le parti più tenui del minerale, le quali per la loro maggiore pesantezza tendono a deporsi prima dell'argilla e non appena le acque rallentino il loro movimento. Perciò in immediata prossimità delle officine sono costruiti dei lunghi canali orizzontali accoppiati, che vengono alternativamente percorsi dalle acque fangose. Deviata la corrente in un canale, dall'altro lasciato all'asciutto si tolgono le fanghiglie ferrifere che sono costituite da una sabbia finissima detta puletta di decantazione. Data la scarsità di sorgenti nella zona delle miniere, l'acqua necessaria al funzionamento delle laverie viene pompata dal mare con centrifughe ad alta prevalenza e di grande portata. Ogni laveria consuma infatti da 130-150 mc d'acqua all'ora, mentre la quota degli impianti varia tra i 20 e i 150 m s/m”.
Le laverie di tipo patouillets, spesso chiamate “lavaggini” dagli operai, rimasero in attività fino al dopoguerra. Negli anni '30 del Novecento erano ben dieci, presenti nelle miniere principali, sopratutto in prossimità dei cantieri più importanti. Arrivavano a lavare 1500 tonnellate di minerale ogni otto ore. In seguito la società Ferromin introdusse una tipologia più moderna. Così a Rio Marina fu installata un impianto a ciclone Driessen, dotato di ugelli fissi per la separazione del minerale pesante. A Vigneria e Rio Albano furono costruiti un impianto di flow-sheet, sfangamento, lavaggio e flottazione. Nella prima miniera era preposto al lavaggio di minerali piritosi, con una potenzialità di 15 tonnellate l'ora; nella seconda il lavaggio riguardava le terre ferrifere e la potenzialità era di 90 tonnellate l'ora. La laveria di Vigneria è rimasta sepolta da una frana.
Nel dopoguerra le laverie furono tutte modernizzate, applicando anche il processo di separazione elettromagnetica nelle miniere capoliveresi. Si trattava di strutture a piani, sempre addossate a ripidi fianchi collinari, in prossimità del pontile d'imbarco. I loro ruderi si vedono nelle quattro miniere principali: a cala Seregola, nella miniera di Rio Albano; al Portello, nella miniera di Rio Marina; al Cannello, nella miniera di Calamita; e a capo delle Brache, nella miniera del Ginevro. I loro edifici sono le strutture più grandi di tutti quelli presenti in miniera.
Scrive Filippo Boreali: “Erano definite come “laverie terre”, avevano necessità di grandi quantità d'acqua e la loro costruzione in prossimità del mare ne consentiva il prelievo senza limitazioni, pompandola in grandi bacini costruiti a un'altezza superiore alla laveria in maniera che l'acqua, per caduta, alimentasse l'impianto. Solo la laveria di Ginevro non usava l'acqua ed era definita “laveria a secco”, questo perché la magnetite compatta non aveva bisogno del primo trattamento di lavaggio. Necessitava comunque, anche se in misura minore, d'acqua dolce proveniente dalle gallerie per l'abbattimento delle polveri”.
Il minerale passava da varie fasi, ognuna su un piano. Veniva caricato nella parte alta, dove si trovava una griglia, talvolta realizzata con incroci di vecchie rotaie, con aperture di circa 60 centimetri l'una, in modo da far passare dei pezzi non troppo capienti di minerale. Quelli troppo grossi venivano spezzati a colpi di mazza. Nel locale sottostante il minerale passava da un primo frantoio, che lo riduceva a pezzi di 20-30 centimetri. La discesa seguente prevedeva il passaggio da vagli a scossa, dove il minerale veniva scosso a colpi di paraurti, setacci e crivelli, che si muovevano con andamento alternato. A questo punto il minerale era ridotto a pezzi di appena 3-5 centimetri. Le scosse permettevano di separare i grani grossi dai piccoli, in quanto i primi si depositavano in basso. Il tavolo di sfangamento permetteva il lavaggio con acqua marina del minerale. I pezzi più minuti passavano infine tra i tamburi di separazione elettromagnetica, che li ripulivano più accuratamente dalle ganghe. Al piano basso c'erano i silos che raccoglievano il minerale ben vagliato, diviso in grana (a piccoli pezzi) e fine (quello più sabbioso), pronto per essere trasportato, con camion o tramite nastro trasportatore, all'imbarco.
Aggiunge ancora Boreali: “A dirigere i lavori di questi impianti importanti e anche complessi vi era un capo servizio e un capo turno. Il lavoro richiedeva tanta fatica per gli addetti alla griglia, come per quelli dei silos, che dovevano spesso provvedere a sbloccarli, quando il minerale faceva “capanna” e non riusciva a scorrere verso la bocchetta di scarico. Per sboccarli si usava una lunga asta di ferro che, manovrata con forza “pinzando” alcuni punti della massa di minerale, consentiva la ripresa del contatto con la bocchetta di scarico. Molti incidenti, anche mortali, sono avvenuti nei silos”.
Per quanto riguarda la puletta, la polvere ferrifera, troppo fine per assicurare facili trasporti, e in parte per un minerale friabile come l'ematite, nel dopoguerra furono realizzati nelle miniere anche i forni di pellettizzazione. La puletta e l'ematite a scaglie, dopo essere passate dalla laveria e la separatrice magnetica, venivano destinate a questo particolare forno. L'alta temperatura a cui venivano sottoposte permetteva la compressione delle minuscole scaglie in sfere di qualche decina di millimetri. Una volta caricate sulle navi erano subito pronte per l'altoforno. Nel dopoguerra furono costruiti due di questi forni: uno a Rio Albano, dalla potenzialità di 4 tonnellate l'ora; l'altro a Calamita, al Vallone basso, vicino al pontile di caricamento, demolito pochi anni fa, in quanto ormai ridotto in rudere.
Andrea Galassi